Eccomi al ritorno della serata inaugurale di questo 18° festival del cinema africano, e devo dire che l’inizio non è stata quella che si potrebbe definire una passeggiata, cinematograficamente parlando, intendo.
A parte la gradevolezza della “cerimonia” d’apertura, in un contesto familiare e pacato, fortemente umano e a modo - con il concerto piano-voce e una breve presentazione da parte della direttrice Alessandra Speciale, il tutto con un brillante Andrè Siani abile padrone di casa - è sul film che volevo concentrare la mia attenzione: così, giusto per lanciare due spunti dal blog su quello che mi ha lasciato questa pellicola, a caldo, perché un film come questo non può lasciare indifferenti.
Il 18° festival del cinema africano è iniziato con la proiezione di Padre Nuestro, film di Christopher Zalla datato 2007; regista che sembra incarnare già in se stesso lo spirito di questo festival che, contrariamente a quanto continuo a scrivere, non è dedicato solo al cinema africano, ma anche a quello di Asia e America Latina. Già, perchè Zalla - giovane autore nato in Kenya e cresciuto negli Stati Uniti - fa un film con protagonisti messicani: sugli emigrati che lasciano il Messico per seguire il presunto “sogno americano”, per trovarsi alla fine in una situazione forse più drammatica di quella da cui fuggivano.
Padre Nuestro è un film duro, senza compromessi, e colpisce lo spettatore direttamente nella bocca dello stomaco, per lasciarlo lì, sulla sua poltroncina senza respiro.
È un film che parte da una matrice realista per poi distaccarsene leggermente, e trovare la maniera migliore per dipingere un quadro che ci mette di fronte ad uno spaccato di vita reale, vera forse oltre al vero. Nel senso che va oltre la singola storia raccontata.
Uno spaccato dal quale emerge la violenza di un mondo che non ammette i sentimenti, dove i rapporti umani, quando diventano davvero umani, vengono bruscamente interrotti: con la violenza.
E tutto pare avere un chiusura circolare, nonostante l’intrecciarsi delle storie dei due protagonisti. Il film parla del dramma dell’emigrazione e, in questo senso, il finale suona un po’ come un passaggio di testimone, con il vecchio che torna in Messico, da dove era venuto molti anni prima, e il giovane che scappa, con l’eredità del vecchio sulle spalle, e verso un futuro ignoto, ma di certo avverso e irto di difficoltà come fu quello del suo “predecessore”.
E poco importa se molte cose rimangono fuori campo, come la verità sulle menzogne che il finto Pedro racconta al vero padre, o come la vera fine del vero Pedro, che non si sa se muore o no. Quello che resta in campo, per trasmettersi direttamente nelle viscere dello spettatore, è un ritratto fedele di una condizione disperata, che va ben al di là di una singola vicenda umana.
(flavio)
1 commento:
Davvero un ottimo film, che secondo me riprende ancora molto la tematica dell'identità. Juan prima ruba a Pedro la borsa, poi piano piano si impossessa del suo passato, per arrivare a sottragli anche il suo presente: suo padre, la sua "spalla - ragazza" ( Magda) e infine, una volta avuta per intero la sua identità può arrivare a togliergli la vita stessa.
Il vero Pedro, invece, segue le orme di suo padre e senza aiuto lavora duramente e cerca di arrangiarsi come può: questa è l'identità di Diego che suo figlio ripercorre molti anni dopo.
Due storie tragiche, quella di Pedro, ingenuo e buono e per questo travolto dal mondo e quella di Juan, smaliziato, furbo, ladro che si salva, ma pagando un prezzo altissimo.
D'altra parte non si può biasimare quest'ultimo, perchè qui non è il gioco della violenza fine a sè stessa che viene rappresentato, ma quello della lotta per la sopravvivenza fisica e psicologica.
Diego non è il padre di Juan, non quello naturale, ma in tre giorni gli fa da padre più di quanto forse l'abbia mai fatto il suo padre vero ( che a Juan ha lasciato " solo un coltello e il buco che ci ha fatto ").
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